Carlotta Berta – fondatrice dello studio di progettazione d’interni unprogetto e già nostra ospite qui su The Buns – è il nostro riferimento nel panorama dell’interior design. Attraverso il suo profilo Instagram @unacarlotta, condivide riflessioni e ispirazioni che spaziano dall’architettura all’interior design, sempre con un occhio attento alle evoluzioni culturali e sociali.
Durante il Salone del Mobile 2025, Carlotta ha condiviso un reel su Instagram in cui ha individuato nove tendenze emergenti nel design d’interni. Il design non è mai solo una questione di estetica. È un riflesso potente di quello che stiamo vivendo, di come stiamo cambiando come società e come individui. In un momento storico in cui tutto è fluido e incerto, gli oggetti che scegliamo per arredare la nostra casa diventano simboli, strumenti e proiezioni del nostro modo di abitare il mondo.

Questo pezzo è un tentativo di leggere tra le righe delle sue brillanti osservazioni, per capire cosa ci raccontano davvero questi trend. Perché, a ben guardare, stiamo arredando le nostre paure, i nostri desideri, i nostri sogni futuri. Buona lettura.
1. Kidulting: Il gioco è bello finché non stanca
Il kidulting è stato uno dei trend più riconoscibili degli ultimi anni: forme giocose, colori pastello, citazioni cartoon, oggetti fuori scala. È l’estetica del gioco, dell’infanzia portata nell’età adulta come gesto liberatorio. E per un po’ ha funzionato. Dopo anni di ansia collettiva, l’ironia e la leggerezza sembravano l’antidoto perfetto.
Ma oggi questa tendenza comincia la sua curva in discesa. Il design “infantilizzato” rischia di diventare una parodia di sé stesso: si moltiplicano i prodotti kawaii, i riferimenti pop iper-commerciali, le case che sembrano scenografie da spot TikTok. Il gioco smette di essere atto creativo e diventa cliché. Un riflesso un po’ stanco di un’epoca che ci ha chiesto troppo, e a cui abbiamo risposto rifugiandoci nel rassicurante.
Culturalmente, il kidulting parla di una generazione che ha faticato a diventare adulta – ciao, Millennial – non per mancanza di volontà, ma per condizioni materiali precarie. Case in affitto, lavori flessibili, identità sospese. E allora arredare come bambini è sembrata una forma di potere. Ma oggi, forse, c’è voglia di altro. Di forme più solide, di un’estetica che non nasconda il disagio dietro una facciata giocosa. Il gioco, per restare vitale, deve evolvere. E forse, nel design, siamo pronti a una nuova fase. Meno zuccherosa. Più profonda.
2. Inlays details: Il lusso silenzioso che parla a chi lo vive
Intarsi, lavorazioni minuziose, tagli invisibili: l’attenzione al dettaglio, oggi, è una forma di lusso profondo. Non si mostra, si scopre. Non urla, ma sussurra a chi sa ascoltare. È un’estetica che rifiuta l’ostentazione, perché nasce da un’altra logica: quella dell’interiorità.
In un mondo che premia la visibilità a tutti i costi, questa tendenza si muove in controtendenza. Parla di persone che cercano spazi intimi, silenziosi, significativi. Che vogliono oggetti non per essere visti, ma per stare bene. È il lusso di chi si sceglie ogni giorno – non per gli altri, ma per sé.
Di certo è un cambio di paradigma: dopo anni in cui il valore era legato all’impatto visivo (grande, lucido, costoso), oggi il valore sta nella presenza, nella qualità, nel gesto. Un’incisione appena visibile su un tavolo, una chiusura nascosta perfettamente integrata: sono segni di una nuova sensibilità. Quella che mette la relazione con lo spazio al centro.
Questo tipo di design non è per chi guarda di passaggio. È per chi abita davvero, per chi si ferma, per chi tocca. Il dettaglio diventa così una forma di meditazione: qualcosa che ci ricorda che esiste una bellezza che non ha bisogno di pubblico per esistere.
3. Cerulean blue: il colore che dice no al rumore
Il ceruleo è una presa di posizione, una postura. In un mondo saturo di urla visive, di tonalità iper-sature pensate per catturare attenzione in un feed, il cerulean blue è un gesto di sottrazione. Un colore che rifiuta di competere. Che non vuole brillare più degli altri, ma solo respirare.
È un blu chiaro, limpido, quasi fragile. Non colpisce, non invade. Sta lì, come un cielo senza nuvole, come una pausa. È un colore anti in tutto: anti-neon, anti-marketing, anti-stimolo eccessivo. In un’epoca in cui ogni pixel grida per non essere ignorato, il ceruleo sceglie il silenzio. E in questo silenzio, conquista.
È una scelta cromatica che parla di una stanchezza collettiva. Di una voglia crescente di sottrarsi al rumore, fuori e dentro di noi. È il colore di chi non vuole più correre, di chi ha bisogno di stanze che non siano un palcoscenico, ma un rifugio. Il ceruleo è il design di chi ancora una volta non cerca approvazione, ma pace.
E poi c’è qualcosa di antico in questo blu: una pulizia quasi spirituale, un bisogno di purificare l’aria che respiriamo e quella che ci portiamo dentro. In mezzo al caos estetico contemporaneo, è una scelta radicale. Perché oggi, scegliere la calma è un atto profondamente controcorrente.
4. Brutalism: materia dura per tempi duri
l brutalismo nel design è tornato, ed è un gran segnale. Cemento grezzo, pietra lavica, metallo spoglio, marmo massiccio: materiali pesanti, viscerali, che non cercano di piacere, ma di imporsi. Ci parlano di un desiderio di radicamento, di qualcosa che tenga, che non crolli. Dopo anni di superfici morbide, filtri, arredi effimeri, vogliamo sentire il peso delle cose.
Ma c’è di più. Il ritorno della materia dura è anche un riflesso del nostro tempo: un’epoca attraversata da guerre vere e da guerre interiori, da instabilità geopolitiche e da minacce continue alla sicurezza individuale. In questo contesto, il brutalismo è una corazza. È l’architettura che risponde alla paura con la solidità. Che costruisce muri non solo fisici, ma psicologici.
Insomma, è una reazione a decenni di estetica confortevole. Il brutalismo ci riporta alla cruda realtà, alla materia che resiste. È il contrario della smaterializzazione digitale: ogni superficie ruvida, ogni bordo tagliente dice che qui c’è qualcosa di reale. Qualcosa che non puoi scrollare via.
In fondo, è il design di un mondo in cui la minaccia è tornata a essere concreta. E la casa diventa roccaforte, scudo, struttura difensiva. Non per chiudersi al mondo, ma per trovare un punto fermo da cui guardarlo in faccia.
5. Wrapped: cosa ci tiene insieme quando ci sentiamo a pezzi
Tra stress, solitudini, pressioni emotive e carichi mentali, il bisogno di essere contenuti è diventato fondamentale. Wrapped non è solo una tendenza formale fatta di cuscini che si ripiegano, di sedute avvolgenti, di imbottiti che diventano struttura. È una risposta a una fragilità diffusa. È il tentativo, profondo e quasi istintivo, di costruire spazi che ci tengano insieme.
Nel wrapped design, le forme si curvano su di noi, ci avvolgono, ci proteggono. Le linee dritte si piegano, i volumi si fanno morbidi, gli oggetti sembrano progettati non per essere belli, ma per accogliere. È un design che si mette al servizio del corpo, ma anche della psiche. Ci dice: “Va bene così. Puoi lasciarti andare.”
Si tratta di una risposta potente a una società che ci chiede di performare sempre, di essere efficienti, autonomi, veloci. La casa wrapped invece è lenta, densa, fisica. È fatta per sostenerci, non per impressionare. E in questo ha qualcosa di profondamente politico: perché rivendica la cura e la tenerezza come esigenze strutturali e non decorative.
È anche un modo nuovo di abitare la vulnerabilità come esperienza da contenere. Letteralmente. Ci sediamo in una poltrona che ci abbraccia perché, forse, nessuno lo sta facendo altrove.
6. Clubbing: la casa che mette in scena l’energia
Luci al neon, superfici riflettenti, metalli lucidi: elementi che fino a poco tempo fa avremmo associato a spazi pubblici, locali notturni o ambienti effimeri. E invece oggi li ritroviamo dentro casa. Qui registriamo il bisogno di riaccendere i sensi, di spezzare la routine, di creare angoli in cui la vita sia anche stupore.
Il clubbing domestico non è il tentativo di ricreare una discoteca tra le mura di casa. È qualcosa di più sottile. È l’idea che anche gli spazi privati abbiano diritto alla teatralità. Che la casa non debba essere solo rifugio, ma anche scena. Una scena intima, dove possiamo essere più liberi, più eccentrici, più intensi, anche solo per pochi minuti.
Questo trend parla di una rivalutazione del piacere. In una società che spesso privilegia l’efficienza e la produttività, portare dentro casa elementi luminosi, iridescenti, non utili in senso stretto, è una forma di emancipazione estetica. È scegliere di abitare anche l’emozione, non solo la funzione.
È anche un segnale di individualismo consapevole: ognuno ha il diritto di costruirsi un ambiente che rifletta la propria energia, anche in modo audace. E di farlo non per impressionare gli altri, ma per riconoscersi, ogni giorno, in uno spazio che vibra con la propria frequenza.
7. Safari: l’estetica dell’altrove in un mondo che brucia
Safari è la forma con cui il design metabolizza un paesaggio che diventa ogni anno più reale e meno metaforico: quello del deserto. Sabbia, pelle, legno grezzo, terre bruciate dal sole, non sono solo scelte di stile. Sono immagini di un mondo che cambia sotto i nostri occhi, e che il design porta dentro casa per farci riflettere, adattare, forse anche reagire.
La tendenza prende ispirazione da luoghi estremi, caldi, aridi, essenziali. E li traduce in ambienti asciutti, materiali naturali, texture primitive. È un confronto con l’ambiente che collassa, con un’idea di natura che non è più il “verde” da proteggere, ma il “secco” da capire.
Per noi Safari è potente perché ci rimette in contatto con qualcosa di radicale: la nostra necessità di semplificare. In un presente iper-tecnologico, multiscreen, multilivello, ci attrae l’essenzialità di una vita che torna alla materia, alla polvere, al gesto manuale. È la casa come tenda, come rifugio mobile, come oasi.
E poi, c’è un richiamo profondo alla sopravvivenza. Mentre il clima cambia, mentre il paesaggio si trasforma, portiamo il deserto dentro casa non per esotismo, ma per familiarizzare con ciò che potrebbe diventare la nuova normalità. Il design, ancora una volta, anticipa. E ci costringe a guardare dove stiamo andando, anche quando non è comodo.
8. Shades of lime: Il colore dell’ultima corsa prima di rallentare
Il lime è ovunque: dai mobili agli accessori, dai rivestimenti alle luci. Una tonalità accesa, vibrante, che ha invaso il design con la forza di un colpo di scena. È il colore della vitalità, dell’urgenza, dell’“esserci a tutti i costi”. Ma ora che l’abbiamo visto ovunque, comincia a diventare prevedibile. Siamo nella fase di saturazione.
Come è successo al millennial pink o al verde salvia, anche il lime inizia la sua curva in discesa: il momento in cui il trend non è più provocazione, ma standard. È il segnale che il ciclo si sta chiudendo. Ma anche in questa stanchezza, il lime continua a dirci qualcosa: che abbiamo avuto un bisogno disperato di energia, di slancio, di visibilità. Di sentirci vivi in un mondo che ci stava prosciugando.
Il lime ha incarnato un’epoca post-pandemica in cui la casa doveva trasmettere vita, movimento, urgenza creativa. È stato un colore “terapeutico”, quasi, come un integratore di dopamina. Ma il rischio oggi è che si trasformi in una maschera di entusiasmo: una vitalità forzata che non ci rappresenta più.
Il fatto che inizi a stancarci è interessante: forse stiamo cercando qualcosa di meno reattivo, di più autentico. Forse abbiamo bisogno di colori che non urlino per esistere, ma che ci accompagnino nel vivere. Ma intanto il lime resta lì, come un’eco: l’eco di un momento in cui avevamo bisogno, più di tutto, di sentirci accesi. Anche solo per non spegnerci.
9. Binding: la bellezza dei legami visibili
Se c’è un trend che più degli altri rappresenta lo spirito di questo tempo, è Binding. E brava Carlotta Berta per averlo intercettato in modo così puntuale. È il principe silenzioso di questa sequenza, il più forte, il più simbolico. Perché parla di qualcosa che va oltre il design: il bisogno urgente di legarsi, di tenersi, di costruire relazioni strutturali e non superficiali, con le cose, con le persone, con se stessi.
Le cinghie che tengono insieme un cuscino, i nodi visibili che sorreggono una sedia, i legacci che strutturano un oggetto: tutto parla di una nuova sincerità progettuale. Niente è nascosto. I punti di connessione non si mimetizzano: si mostrano. Perché oggi, ciò che unisce è più importante di ciò che appare.
Ve lo diciamo senza remore: questa tendenza tocca nervi profondi. Viviamo in una società in cui i legami si stanno sfaldando: famiglie che si disgregano, amicizie liquide, rapporti di lavoro precari, comunità smagliate. Siamo immersi in una realtà dove la tenuta relazionale è fragile. Binding risponde a tutto questo non con nostalgia, ma con un messaggio nuovo: se vuoi che qualcosa duri, rendi visibile come è tenuto insieme.
È anche una forma di umiltà del design. In passato abbiamo nascosto giunture, incastri, supporti, come se non fossero degni di nota. Oggi li celebriamo. Perché tenere insieme è un atto di cura, di progettazione consapevole, di intelligenza emotiva applicata alla materia. È dire: non basta che funzioni, voglio capire come tiene. E voglio che lo veda anche chi entra.
Dal punto di vista simbolico, Binding è anche il contrario dell’usa e getta. Dove tutto si rompe facilmente — relazioni, dispositivi, promesse — questo design ci ricorda che si può legare, riparare, sostenere, invece di sostituire. E che spesso è proprio nel legame, visibile e dichiarato, che un oggetto (o una relazione) acquista valore.
Infine, Binding è anche una lezione sulla bellezza, dove la forza estetica nasce dalla tensione tra le parti, dal loro equilibrio imperfetto, ma stabile. È il design che non ha paura di mostrarsi per com’è: fatto di punti d’appoggio, di alleanze, di incastri che funzionano solo se c’è rispetto reciproco tra le parti.
Per questo Binding per noi di The Buns è, forse, la sintesi più potente del nostro tempo (e di questo Salone del Mobile 2025). Perché mentre tutto cerca di correre, brillare, semplificare, ci ricorda una cosa semplice e solida: ciò che tiene conta più di ciò che si vede.